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Artist* Dimenticat* della Storia dell’Arte

Di Ella Hackett

tradotto da Lucia Morciano



Non è stato affatto semplice scegliere un’artista per questo articolo. Ero indecisa tra il portare alla ribalta un’artista meno celebre, quale Lavinia Fontana (pittrice del Rinascimento bolognese che ha potuto godere della sua carriera artistica nonostante fosse una donna) o addirittura fare un salto di alcuni secoli, spostandoci nei sobborghi parigini dove troviamo la ritrattista personale di Maria Antonietta, Élisabeth Vigée Le Brun. Ho invece resistito all’impulso di parlarvi di loro e ho deciso di affrontare una delle artiste più prolifiche e rinomate di tutti i tempi: Artemisia Gentileschi.


Gentileschi nacque nel cuore di un’asfissiante estate romana, l’8 luglio del 1593. Sua madre, Prudenzia Montone, morì quando lei aveva solo dodici anni, lasciandola alle cure del padre, il famoso pittore pisano Orazio Gentileschi. Il padre di Artemisia non era una figura genitoriale solidale e amorevole. La storica Elizabeth Cropper accende una luce impenitente su Orazio, mostrandone l’opinabile moralità paterna e affermando che “suo padre non voleva che si sposasse, la faceva posare nuda e amava che gli altri la guardassero”. Sotto le cure malsane e perverse del padre, Artemisia, nonostante la fama e il successo, fu soggetta a esecrabili abusi per buona parte della vita. È risaputo che molte delle donne nude dipinte da Orazio durante la sua carriera rassomigliavano in modo inquietante alla figlia Artemisia. Viene naturale pensare che quale figlia di un pittore, la vita non possa che essere vantaggiosa e redditizia. Nel caso di Artemisia ciò è vero fino a un certo punto, ma non si può certo affermare che la giovane donna sia stata favorita dal nepotismo. Il padre pittore le insegnò numerose ed efficaci tecniche pratiche e stilistiche, indiscutibilmente utili per ogni futuro artista ma, come scopriremo a breve, quella di Gentileschi era un’arma a doppio taglio.

Non solo il padre di Artemisia la assoggettò a deleterie perversioni sessuali fin dalla giovane età, ma il lavoro personale della giovane artista ricordava a tal punto quello del padre che i suoi dipinti furono (troppo) spesso accreditati a lui. La sua opera prima, Susanna e i vecchioni, del 1610, fu attribuita alla giovane diciassettenne solo per via della firma autografa nell’angolo destro della cornice. Senza questo dettaglio, la tela sarebbe stata sicuramente accaparrata dall’avido Orazio. A tutt’oggi molti studiosi sono ancora convinti che il dipinto sia opera sua. In realtà, Susanna e i vecchioni è un autoritratto. Artemisia è Susanna, giovane, denudata e disgustata, che rifugge dai perversi guardoni che riconosce quali amici e colleghi del padre. Nella storia di Susanna e i vecchioni, Susanna viene ricattata da due anziani che le intimano di andare a letto con loro, altrimenti diffonderanno pettegolezzi su una sua presunta relazione con un giovane uomo. Tuttavia, il bene prevale e i due uomini vengono smascherati e sentenziati a morte.

Susanna e i vecchioni è un’opera seminale a dir poco affascinante. Se davvero riconosciamo Artemisia in Susanna (le sue caratteristiche, in effetti, ricordano Artemisia e l’unica modella nuda alla quale l’artista avesse accesso ai tempi di Susanna e i vecchioni, nel 1610, era indubbiamente se stessa), allora Susanna e i vecchioni è il primo autoritratto nudo di una pittrice raffigurante una pittrice. Quando prendiamo in considerazione la storia di Artemisia e del suo sfruttamento, l’opera viene investita di una valenza politica, emozionale e psicologica. L’abilità di Artemisia era sensazionale e questo è un dato di fatto, ma l’ingegno, il contegno e l’intricato realismo di questo primo dipinto sono la ragione per cui il suo retaggio ha superato i secoli. Si potrebbe perfino asserire che Artemisia scatenò veementi moti di invidia e non solo nel padre, ma anche in altri artisti di sesso maschile. Seppur giovane, era già capace di creare opere che fossero autentiche, intense e arcane. I suoi dipinti erano talmente celebri e stimati da accrescere notevolmente il valore di ogni collezione d’arte che comprendesse almeno una delle sue opere. Eppure, come succede spesso nei casi di straordinario talento e abilità sovrumane, del Rinascimento e non, il successo, è risaputo, si nasconde sovente nelle trame della gelosia e, di conseguenza, della sciagura.


Le sue abilità non la protessero dalla crudele e androcentrica società rinascimentale, piuttosto la inasprirono. L’anno di creazione di Susanna e i vecchioni, a soli diciassette anni, Artemisia fu stuprata e oltraggiata da taluni amici intimi del padre nonché suoi precettori, Agostino Tassi e Cosimo Quarli. Inaspettatamente, Susanna e i vecchioni diviene ancora più strabiliante: un dipinto che prefigura la vita reale. Nel sedicesimo secolo, deflorare una donna equivaleva a privarla del proprio “valore” ovvero non veniva più considerata pura né attraente agli occhi degli altri uomini. All’epoca del Rinascimento le donne non potevano denunciare gli stupri ed era il padre a prenderne l’onere, ma il motivo che portò Orazio a svelare l’accaduto fu molto più sinistro di quanto si immagini. Nei mesi in cui si verificò lo stupro il dipinto Giuditta, di Artemisia, fu inviato al casato di Tassi; vago il motivo che spinse al gesto: ricatto o regalo? L’opera era ispirata all’ultimo lavoro di Artemisia, Giuditta che decapita Oloferne, del 1612-13. Il dipinto è brutale, sanguinario, spietato. Racconta la storia di Giuditta che assassina Oloferne, un piantagrane assiro inviato a distruggere la città nella quale Giuditta viveva. Giuditta emana forza muliebre e potere femminile; ma un racconto del genere, raffigurato senza un frammento di censura, era alquanto pericoloso per il suo creatore. Chissà che Artemisia non inviò il dipinto quale avvertimento? O fu mera provocazione? Tanto quanto Susanna e i vecchioni, questo dipinto è indubbiamente un altro autoritratto. La povera Susanna si era trasformata nella furibonda Giuditta che decapita Oloferne, 1612-13, o Artemisia Gentileschi Giuditta. Sarebbe arduo non vedere la furiosa Artemisia in Giuditta o il perfido Tassi nell’indifeso Oloferne. Le notizie sono incerte su come Orazio venne a conoscenza dello stupro, ma quando fu informato di aver perso un dipinto redditizio, Giuditta, egli ordinò che Tasso sposasse sua figlia, poiché nessuno l’avrebbe più voluta ora che la sua purezza era stata intaccata. Per incrementare le possibilità che i due si sposassero, Artemisia, spinta dal padre, continuava ad avere rapporti sessuali col suo stupratore. Come si poteva prevedere, Tassi disonorò l’impegno e rifiutò di sposare Artemisia. L’artista confessò di aver sì stuprato la giovane donna, ma non essendo certo stato il primo, non aveva perpetrato alcun torto. Adirato per il “danno alla proprietà” subìto, Orazio accusò Tassi di stupro; l’udienza si tenne il 18 marzo del 1612 e durò sette terribili mesi. Artemisia fu esposta e umiliata pubblicamente: fu sottoposta a un esame pelvico di fronte al giudice prima ancora di aver computo diciotto anni e, fatto ancora più indisponente, Tassi in precedenza era stato accusato di aver stuprato sia la cognata che una delle sue mogli (quest’ultima fu poi data per “dispersa” e nelle vie di Roma si sussurrava che Tassi l’avesse uccisa o che avesse assoldato dei banditi per farlo al posto suo). Sorprendentemente, fu Orazio a organizzare la causa, pur sapendo quanto sarebbe stato dannoso per Artemisia e per la sua reputazione di donna e di artista. Ma a Orazio importavano le proprie perdite, non quelle della figlia. Una volta chiusa la causa, Tassi venne incriminato e bandito da Roma per un misero anno, ma continuò comunque a dipingere, indenne da tali orribili eventi. Artemisia fu forzata a fuggire a Firenze, derubata di tutto tranne che dell’arte, del talento e della determinazione.


A Firenze, Artemisia prosperò e divenne la prima artista a essere accetta all’Accademia delle Arti del Disegno, nel 1615, prima del suo rientro a Roma anni dopo l’accaduto. I suoi successi, ora come allora, sono talmente celebrati e commemorati in tutto il mondo che, spesso, capita di dimenticare che l’artista sia stata vittima di stupro e abuso sessuale. La forza, l’impegno e la determinazione che Artemisia presentò nel corso della vita furono fenomenali. Il fatto di essere una donna non le avrebbe mai impedito di raggiungere i propri obiettivi artistici. La giovane artista si è indubbiamente trasformata in un’icona del femminismo contemporaneo idonea al ventunesimo secolo. Grazie ad Artemisia Gentileschi, noi donne possiamo imparare che il successo e la realizzazione sono possibili a discapito delle circostanze. Senza Artemisia, probabilmente, tante pittrici sarebbero rimaste all’ombra degli uomini, lottando molto più a lungo del dovuto.

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